Lo sguardo rivolto al passato spesso ci aiuta a comprendere, se non a prevedere (almeno in parte, visto che nessuno ha la “sfera di cristallo”) il futuro. Un teorema che si può benissimo applicare anche all’economia e alla finanza.
Partiamo, ancora una volta, dall’anno che si è appena chiuso. Come abbiamo detto ieri, uno dei peggiori, per quanto riguarda l’andamento di molti asset, degli ultimi decenni. Secondo alcuni addirittura il peggiore degli ultimi 100 anni se il portafoglio fosse stato impostato con la banale formula “60% azionario 40% obbligazionario”, visto il venir meno della “decorrelazione”, vale a dire, in sintesi estrema, l’andamento opposto, come in passato era solito accadere, del mercato azionario, più esposto al rischio, rispetto a quello obbligazionario, tradizionalmente più difensivo.
A detto di molti, l’anno appena iniziato dovrebbe essere un anno di “transizione”: nei primi mesi le Banche Centrali quasi sicuramente proseguiranno nelle loro politiche restrittive, con rialzi, almeno per quanto riguarda la BCE e la FED americana, compresi tra lo 0,50 e lo 0,75%. I segnali che provengono da Germania e Spagna, dove, nel mese di dicembre, l’inflazione ha fatto un passo indietro (in Germania scendendo all’8,6% rispetto al 10% di novembre e al 10,4% di ottobre, in Spagna passata al 5,8% dal 6,8% di novembre) non dovrebbero portare ad un cambiamento di rotta: anche perché per quanto riguarda l’inflazione core (quella al netto dei prezzi di energia ed alimentari, le componenti più variabili) è invece salita, passando dal 5% al 5,1% in Germania e dal 6,3% al 6,9% in Spagna.
Gradualmente l’attenzione dovrebbe spostarsi dall’andamento dei prezzi verso la recessione, aspetto che, da un punto di vista teorico, spaventa i mercati, che vedono, con il diminuire delle attività produttive, una contestuale riduzione degli utili aziendali. Risulterà fondamentale, se dovessimo trovarci in quella situazione, capire se avremo un rallentamento “morbido” (soft lending) o, piuttosto, più pesante (hard lending). Nel 2° caso, la diminuzione degli utili potrebbe attestarsi intorno al 15%, fatto che potrebbe portare ad una nuova caduta del mercato statunitense (S&P 500); nel 1° caso, invece, si ipotizza che gli utili possano leggermente crescere (+ 4% negli Usa, + 2% in Europa, + 3% nei Paesi emergenti), con un mercato(sempre S&P 500) che potrebbe crescere di circa il 10%. Ovviamente gli scenari potrebbero cambiare in funzione dei mercati di riferimento, come già si è notato negli ultimi giorni del 2022 e nelle prime sedute del 2023. L’Europa, forse eccessivamente penalizzata nel corso del 2022, sembra avere, in questa fase, una maggiore potenzialità rispetto a Wall Street, su cui pesano maggiormente i titoli “growth”, quelli, cioè, più legati alla tecnologia e pertanto più penalizzati dalla crescita dei tassi, in considerazione del loro alto indebitamento.
Rimangono, peraltro, alcune incognite: gli sviluppi della guerra in Ucraina, che potrebbe avere, come ci ha insegnato il 2022, un forte impatto sul prezzo delle materie energetiche (anche se l’introduzione del price cap da parte di moltissimi Paesi, oltre che, dall’altra parte, una situazione climatica particolarmente favorevole dovrebbero “calmierare” i prezzi), l’evoluzione della nuova ondata pandemica in Cina, dove si parla di migliaia di morti ogni giorno, con milioni di contagiati, che potrebbe causare un nuovo rallentamento della crescita in quel Paese, limitandola ad uno striminzito 3% (fino al decennio scorso si viaggiava ad una media del 10% annuo), l’andamento dell’inflazione migliore di quanto le previsioni, fino a qualche settimana fa, facessero pensare, un aumento della liquidità in circolazione (la così detta M2), che, nel corso del 2022 negli USA è calata per la 1 volta in 63 anni), sono tutti elementi che condizioneranno le scelte degli asset manager. Ovvio che se le cose dovessero tutte “incanalarsi” nella giusta direzione, gli spazi per una crescita ben più consistente aumenterebbero più che proporzionalmente.
In Asia anche oggi i mercati sembrano preferire la visione più ottimistica. Crescono la Cina, con Shanghai a + 0,22%, la Corea del Sud, con il Kospi a + 1,1%, Hong Kong, dove l’indice Hang Seng “strappa” all’insù del 2,7% circa. Rimane al palo, invece, Tokyo, con il Nikkei che arretra dell’1,45%.
Futures ben impostati anche oggi, con rialzi diffusi, compresi tra lo 0,2% e lo 0,4%.
Arretra il prezzo del petrolio, condizionato, come il gas, dal clima assolutamente favorevole: WTI del Texas a $ 76,5, in arretramento, questa mattina, dello 0,6% dopo il – 4% circa di ieri.
Gas naturale Usa sotto i $ 4 (3,987, – 0,18%), mentre quello europeo è tornato, nella giornata, a € 71,3 per megawattora, un prezzo inferiore a quello fatto registrare nei giorni dell’invasione russa del febbraio 2021.
Oro a $ 1.862, massimi dallo scorso giugno.
Spread a 209 bp, in leggerissimo rafforzamento, con il BTP a 4,47% di rendimento.
Bund tedesco a 2,38%.
Treasury Usa al 3,72%.
In leggero rafforzamento, sul fronte valutario, l’€, con l’€/$ a 1,0593.
Bitcoin che cerca di riavvicinarsi ai $ 17.000 (16.866,5, + 1,18%).
Ps: tempi duri non solo per Musk e la sua Tesla (anche ieri in caduta a Wall Street, – 12%). Anche Apple, infatti, non sta attraversando uno dei suoi periodi migliori. Ieri le quotazioni sono calate di circa il 3%. Nulla di particolarmente grave, quindi, ma la perdita di valore ha portato la capitalizzazione del gigante di Cupertino sotto i $ 2.000 MD, quota raggiunta nell’agosto 2020, per poi toccare, giusto un anno fa (gennaio 2022) i $ 3.000 MD. A pesare sul titolo le difficoltà della Cina, dove l’azienda, oltre ad avere molti fornitori, ha un importante impianto produttivo.